lunedì 19 maggio 2008

Solo adesso capisco

Devo dire che più mi ci metto e più scopro cose nuove. Non sto parlando di CCD per l'astronomia, tantomeno di QCD o altra fisica teorica. Sto parlando – e se non è zuppa è pan bagnato – di fotografia. Come in tutte le cose, del resto, capita che più si scava e più i dettagli nascosti vengono in superficie. E dire che quando ho cominciato ad affacciarmi a quest'arte – perché solo adesso capisco che di questo si tratta – non avrei mai pensato che ci fossero così tante piccole cose da dover tenere in conto quando si vuole avere una buona fotografia. Io ho sempre pensato che servisse il luogo giusto, un luogo diverso da quello a cui siamo abituati, un luogo in cui tutto acquista una nuova luce, più profonda, più speciale; insomma, un posto nuovo da dover per forza fotografare. Ma quella non è fotografia; quella non è arte; è semplicemente congelare un istante, una scena, una piazza, una chiesa, un monumento.
La fotografia è altro, è arte, appunto. E all'arte non serve una scena speciale, un posto nuovo e sconosciuto; certo, a volte aiuta andare in un posto nuovo: si possono trovare punti di vista diversi, che gli abitanti del luogo magari non ci hanno neanche mai pensato o hanno fatto finta di non vedere. Questo meccanismo è difficile se applicato ai posti conosciuti, perché con l'andare del tempo siamo abituati a vedere quella chiesa, ad esempio, come un semplice edificio adibito a preghiera. E invece scommetto che se lo stesso luogo lo vedesse un estraneo – magari un fotografo – cambieremmo idea all'istante vedendo le sue foto. Non so se mi sono spiegato, ma secondo me è così.
Comunque, dicevo, più approfondisco e più scopro quanto lavoro ci sta dietro per un buono scatto. Ci sono un sacco di cose da valutare attentamente, la prima delle quali è la composizione, ovvero ciò che entrerà nella foto. Mio nonno mi diceva “la fotografia è quella che vedi nel mirino”. Niente di più vero: la foto finale non è quello che vediamo noi ma è quello che vede la fotocamera – sia che si parli di digitale, sia di pellicola. Un esempio? Le foto sono bidimensionali, mentre il mondo è tridimensionale. Quindi, soprattutto in fotografie di paesaggi, si deve trovare un qualche modo per far vedere questa cosa, per dare risalto alle tre dimensioni. E per far questo si deve giocare con lo spazio, con il tempo, con la luce. Ed è solo una delle altre mille cose da tenere a mente.
La conseguenza de “la fotografia è quella che vedi nel mirino” è il fatto che il fotografo deve trasmettere a chi guarda le sensazioni che l'hanno portato a scattare, a ritrarre, quel momento, quell'oggetto. Se ciò non accade non si può parlare di fotografia, io credo. Quindi comporre una foto non significa semplicemente inquadrare un oggetto o una scena e scattare; significa trovare il modo perché quell'oggetto o quella scena trasmetta qualcosa a chi la osserva. Alla luce di questo, è ovvio che il 99% dei miei scatti è, come dico, un insieme di scatti. Le mie foto non trasmettono niente, nessuna sensazione, perché quando le ho scattate non pensavo a questo, ma avevo una concezione diversa della fotografia. I miei scatti sono solamente un congelamento di istanti che, seppur interessanti, non dicono niente.
Oltre alla composizione bisogna anche fare in modo che l'emozione venga trasmessa in modo corretto. Ad esempio, se voglio immortalare un tramonto con un bel gioco di luci sulle nuvole, è ovvio che la foto risultante deve essere esposta correttamente, cioè non troppo chiara altrimenti i toni alti vengono bruciati, né troppo scura. Ho parlato di esposizione, ma potevo anche parlare di profondità di campo, di messa a fuoco e così via. Insomma, dietro un'emozione ci stanno tantissimi dettagli tecnici, parametri e impostazioni da controllare e aggiustare di volta in volta, a seconda delle condizioni di luce del luogo prescelto per lo scatto.
Come dicono i fotografi, “fotografare significa disegnare con la luce”: niente di più vero, ancora una volta. La luce è la nostra migliore amica e il nostro compito è guidarla dove noi vogliamo, come noi vogliamo.
In questo, il digitale offre possibilità molto più ampie della pellicola, soprattutto ai meno esperti. A pellicola, una volta scattato, non si può più tornare indietro: hai un solo scatto buono, non si sgarra. Al massimo ne hai 36, ma non di più. Poi, le regolazioni dei colori, contrasto, nitidezza, sensibilità eccetera sono vincolati alla pellicola in uso. Non puoi usare per uno scatto una pellicola, per un altro un'altra pellicola (lo puoi fare se hai diverse macchine a disposizione).
Con il digitale hai più margine di errore, sia in fase di scatto sia nella post-produzione. In fase di scatto puoi rivedere subito la foto e, se fa schifo, la butti e ricomponi; puoi inoltre regolare le impostazioni della fotocamera in modo preciso per ogni condizione di luce, senza dover cambiare macchina. Un enorme risparmio di tempo (e di soldi, visti anche i costi dei rullini e il loro sviluppo). Poi, in post-produzione, uno scatto mal riuscito è facilmente recuperabile con i moderni software di editing fotografico.
Insomma, ho soltanto scoperto la punta di un iceberg e sto apprestando ad sommergermi ed andare più a fondo. Mi scuso per questa mia fase monotematica che mi porta a parlare prevalentemente di questi argomenti e, pensandoci, forse è meglio che io apra un blog solo per questo genere di cose. Spero che il prossimo post sia per voi fonte di divertimento – se non lo è stato abbastanza questo famoso video.

1 commento:

Filippo il mulo ha detto...

Bravo Dee. Bravo bravo. Lo dico sempre io: l'emozione viene dalla tecnica. O meglio, può venire dalla tecnica. O meglio: viene anche dalla tecnica. Mettila come vuoi, ma la tecnica è indispensabile.